Shareware e freeware

Siamo all’inizio degli anni ‘90 del secolo scorso.
Il Web è ancora in fase di gestazione, ma Internet è già viva, anche se i metodi di accesso alla rete sono diversi da quelli odierni.

Il software professionale viene per lo più venduto in forma fisica (una scatola, contenente floppy disk e manuali cartacei), sugli scaffali di negozi più o meno specializzati, ma esistono anche forme di distribuzione digitali, tra le quali archivi pubblici dotati di un servizio ftp.

Archivi ftp

L’accesso a questi archivi prevedeva l’utilizzo di un protocollo specifico (ftp, File Transfer Protocol), ma l’aspetto oggi sorprendente è che buona parte di questi “siti” poteva essere acceduto in forma anonima, vale a dire inserendo come utenza “anonymous” e come password una sequenza testuale qualsiasi, che per convenzione era l’indirizzo di posta elettronica di chi accedeva ai contenuti… era un modo di tracciare la propria identità, in un mondo informatico più aperto e fiducioso nel prossimo. Una volta entrati, si poteva scaricare il software messo a disposizione nelle cartelle pubbliche.
Alcuni archivi erano gestiti da entità commerciali, per distribuire patch o moduli opzionali; Apple stessa distribuiva, sul sito ftp.apple.com, tutte le versioni del software di sistema in tutte le localizzazioni disponibili, liberamente scaricabili (l’autore fu assai felice di poter scaricare il System 6.0.8, una versione non localizzata e quindi non importata in Italia, da questo canale, potendo così aggiornare il proprio Macintosh LC, a fine 1991).

Shareware e Freeware

Altri archivi invece fungevano da “biblioteche” di software non commerciale: sviluppatori indipendenti mettevano a disposizione il frutto delle loro fatiche, in modo che potesse diffondersi liberamente, per venire utilizzato da chi lo trovasse utile.
Se lo sviluppatore richiedeva un contributo (fisso o a discrezione dell’utilizzatore), si trattava di “shareware”; spesso non c’erano meccanismi di forzatura del pagamento, e gli introiti dell’autore dipendevano dal buon cuore di chi sfruttava la sua creazione. Se invece il software era esplicitamente dato in uso gratuito, veniva definito “freeware”.
Poiché non tutti avevano un facile accesso a questi archivi, diverse organizzazioni, magari facenti parte degli User Group, si prendevano la briga di organizzare il contenuto degli archivi su supporti fisici (CD disk), per poi distribuirli dietro un modesto pagamento, che copriva le spese di produzione; un altro modo di procurarsi le applicazioni era acquistare una delle riviste specializzate in voga all’epoca, che spesso includevano nel numero in edicola una copia dei suddetti CD.

Proprietà intellettuale

Naturalmente, il fatto di dare l’uso gratuito non significava rinunciare ai diritti sul software, e l’uso commerciale di quest’ultimo richiedeva una espressa autorizzazione dello sviluppatore. Chi scrive ha sperimentato personalmente questi meccanismi, per un’applicazione Mac di cui si parlerà forse in altra occasione; l’ufficio di un MUG (Macintosh User Group) che assemblava una delle più diffuse distribuzioni su CD (Info-Mac), mi ha contattato personalmente per richiedere il mio assenso all’inclusione dell’applicazione nella raccolta stessa.
Viene un po’ di nostalgia per una tale delicatezza, pensando a come sono stati “istruiti” i modelli odierni di “Intelligenza Artificiale”, che rastrellano terabyte di informazioni pubbliche (ma soggette comunque a copyright) senza chiedere permesso alcuno…

04 Febbraio, 2025